Alle soglie d’Europa: Il Good Chance Theatre e la sperimentazione di linguaggi performativi nei centri di prima accoglienza e nei campi per rifugiati
Rosaria Ruffini
Abstract
The Good Chance Theatre is a network of international artistes operating in the refugees’ camps and in the Reception Centres for Migrants. In these sorts of laboratories of cosmopolitanism where people from various origins share the ultimate desire to become Europeans, Good Chance Theatre establishes his mobile theatres (geodesic domes) and tries to develop a common language and a shared imagination, using performing arts. Founded in 2015, in the unofficial Calais camp, the Good Chance has developed a network of domes in France and in Great Britain, aiming to increase those spaces of experimentation, where the performative language challenges multiple identities in transition. Hundreds of refugees, artists and volunteers work together daily, to connect peoples, bodies, ideas and narratives. By working at the thresholds of Europe, where new identities are rebuilt or denied, Good Chance Theatre benefits of a privileged viewpoint to look at the continent and foresee its changes. This case study is significant for considering the role, the responsibility and the advantage of being an artist facing mass migration and it offers the possibility to reflect about migrants’ journey (factual or figurative) to reach Europe, and to become new Europeans.
Keywords: Migrants, Reception Centres for Migrants, Refugees’ camps, Performance, Good Chance Theatre, Europa.
The Good Chance Theatre è un network di artisti internazionali che opera nei campi di rifugiati e nei centri di prima accoglienza. In questi inediti laboratori di cosmopolitismo, dove persone di varia origine condividono il sogno di diventare europei, il Good Chance Theatre installa i suoi teatri mobili alla ricerca di un linguaggio comune e di un immaginario condiviso. Fondato nel 2015 nel campo di Calais, il Good Chance ha sviluppato una rete di teatri in Francia e in Gran Bretagna, con l’intenzione di estendere questi spazi di sperimentazione, in cui i linguaggi performativi sfidano nuove identità in transizione. Artisti e migranti provenienti da diversi paesi lavorano insieme quotidianamente per costruire un dialogo tra persone, corpi, idee e narrative diverse. Lavorando alle soglie geografiche, identitarie e culturali d’Europa, il Good Chance gode di un punto di vista privilegiato per osservare il continente. Questo caso studio aiuta a riconsiderare il ruolo e la responsabilità di essere artista di fronte al movimento contemporaneo della migrazione, e offre la possibilità di riflettere sul viaggio reale e metaforico affrontato da centinaia di migliaia di persone per raggiungere l’Europa e diventare nuovi europei.
Parole Chiave: Migranti, Centri di Prima accoglienza, Campi per rifugiati, Performance, Good Chance Theatre, Europa.
Full text
Alle soglie d’Europa: Il Good Chance Theatre e la sperimentazione di linguaggi performativi nei centri di prima accoglienza e nei campi per rifugiati
La zona d’ombra
Il crescente fenomeno delle migrazioni è uno dei nodi centrali della contemporaneità, intorno al quale sembrano naufragare le politiche internazionali e la stessa tenuta dell’Unione Europea. Il processo di progressivo “indurimento” delle identità nazionali1 che considerano la cultura come un sistema chiuso, e il prosperare di politiche populiste ed estremiste, hanno isolato gli ideali e i valori coesivi e multiculturali. In questo scontro, il teatro non si è fatto da parte. Anzi: il binomio teatro-migranti è sempre più radicato e, da almeno due decenni, la ricchezza di attività teatrali focalizzate sull’inclusione sta stimolando la scena contemporanea. I progetti performativi si moltiplicano, proponendo modelli di convivenza e sfidando le asfittiche nozioni di identità culturale difese dai nuovi estremismi. Anche la dimensione critico-teorica ha risposto con la produzione di una rivelante letteratura sul tema2, inaugurando una linea di ricerca che allea gli studi sulla Performance ai Migration Studies, attraverso una varietà d’approcci: dalla critica estetica sulle rappresentazioni del migrante e dell’immigrazione3, alla lettura postcoloniale che analizza l’autorialità dei migranti e il loro apporto al rinnovamento della scena contemporanea4.
Tuttavia in questa vasta produzione si evidenzia una zona d’ombra che riguarda l’emergente produzione artistica praticata nei campi per rifugiati e nei centri di prima accoglienza5. La critica sembra tenersi lontana da questi luoghi dove un numero sempre più ingente di persone vivono confinate in attesa che la burocrazia le qualifichi come “regolari” o “clandestine”. Eppure l’antropologia ci ha indicato, da tempo, questi nuovi territori della modernità: gli scritti di Michel Agier6 e Zygmunt Bauman7 ne hanno ritratto le soglie invisibili dove si occultano e ghettizzano gli indesiderabili, dove si nascondono i veri spettri dell’Europa odierna.
A Idomeni, a Ceuta e Melilla, nei campi rifugiati in Slovenia, in Francia, nei centri di prima accoglienza italiani, circolano anche il teatro e la performance. E non tanto e non solo nelle forme semplici utilizzate da operatori sociali, quanto nelle sperimentazioni praticate da numerosi professionisti delle scene che, in questi luoghi, si mettono alla prova con esiti di grande impatto artistico e sociale. Diversamente dalle esperienze di teatro con immigrati che vivono sul territorio europeo, qui ci si rivolge a migranti appena arrivati, privi di riferimenti, di conoscenze linguistiche e d’identità civile, destinati a ripartire per una meta non nota. La differenza è sostanziale: non si mira all’inclusione sociale, ma a trovare un linguaggio comune dove poter dar spazio all’accoglienza.
Un esempio di questa sperimentazione è il lavoro del Good Chance Theatre, un network di artisti europei che opera nei campi di rifugiati e nei centri di prima accoglienza, installandovi i propri teatri mobili. Il Good Chance Theatre ha scelto come scena un inedito spazio di cosmopolitismo, alle soglie geografiche e culturali dell’Europa, dove persone di varia origine condividono il sogno di diventare europei e di raggiungere il “brave new world”8.
«L’arte dev’essere dove l’arte non c’è9»: la fondazione del Good Chance Theatre nella Giungla
Fondato da due giovani drammaturghi inglesi, Joe Murphy e Joe Robertson, il Good Chance Theatre nasce nel 2015, nel campo migranti di Calais. The Jungle, così come veniva chiamato l’enorme accampamento clandestino, ospitava i migranti che attendevano la buona occasione10 per riuscire a raggiungere la Gran Bretagna, nascondendosi nei tir che attraversano la Manica. Quando il Good Chance vi si installa, il campo ospita circa 6.000 persone in tende di fortuna, ma la popolazione è destinata a crescere esponenzialmente fino alla sua definitiva evacuazione nell’ottobre del 2016. The Jungle rappresentava un caso unico in Europa: tollerato ma non sostenuto dal governo francese, era privo di servizi, di rete idrica e circondato da un recinto che lo divideva dalla città. I migranti vivevano alla giornata grazie agli aiuti inviati da privati in maniera autonoma e disorganizzata. In questo luogo dimenticato dall’Europa, il tasso di delinquenza era altissimo: risse, aggressioni e stupri, anche sui minori, erano all’ordine del giorno. Quando Murphy e Robertson vi arrivano, per svolgere una ricerca sul campo mirata alla scrittura di una dramma, restano sbalorditi e disorientati:
Siamo stati accolti da alcuni Kuwaitiani che erano stati cacciati dal loro paese. Ci hanno prestato una tenda perché non sapevamo come sistemarci. Non capivamo nulla di quello che succedeva, il campo era una vera e propria città. Tutti avevano bisogno di parlare: avevano fatto un lungo viaggio, durante il quale avevano perso familiari e amici. Avevano lasciato dietro di loro la famiglia e ignoravano completamente dove si sarebbero trovati il giorno seguente. Ogni sera, cercavano di montare su un camion o un Eurostar. Quello che succedeva era incredibile, tutte queste persone non smettevano di riunirsi un po’ dappertutto per cantare, danzare, raccontare delle storie11.
Di fronte a tale vitalità performativa e necessità di raccontare, i due Joe decidono di creare un teatro. Con un buon crowfunding, riescono a raccogliere 5.000 sterline per comprare un tendone a forma di cupola che può accogliere fino a 300 persone. «Non c’era un posto dove riunirsi ed esprimere quello che era un momento davvero difficile della loro vita -racconta Roberston- Abbiamo creato il Dome. Ogni città dovrebbe avere il suo teatro»12.
Il Dome viene eretto nel settembre 2015, durante il picco della crisi migratoria in cui più di un milione di migranti raggiunge l’Europa e le immagini degli sbarchi invadono i media fomentando scontri politici e civili. Anche a Calais il numero dei migranti aumenta, arrivando a circa 10.000 persone, senza alcun tipo di struttura organizzativa. Nel caos e nell’anarchia di quei giorni, l’apertura del Dome è un evento. La reazione dei migranti è immediata: «I primi giorni era una festa continua. C’erano canti, rap, danza, musica e in varie lingue»13, racconta Robertson.
Riconosciuto come luogo sicuro dove è possibile sospendere le preoccupazioni, il Dome diventa rapidamente il punto d’incontro dei migranti. I due inglesi vi pianificano un’attività quotidiana di performance, teatro, canto, improvvisazioni, grazie alla collaborazione di artisti provenienti da varie parti d’Europa. Fin da subito, il Good Chance prende forma di network e guadagna l’appoggio dei teatri londinesi Young Vic Theatre, National Theatre e Royal Court Theatre. Numerosi artisti free-lance e compagnie teatrali sbarcano nella Giungla per tenere workshops e rappresentare i propri spettacoli. Il Shakespeare’s Globe vi porta una versione di Hamlet in occasione della sua tournée mondiale “Globe to Globe” per l’anniversario dei 400 anni dalla morte di Shakespeare. Hamlet viene messo in scena in un piazzale, davanti a centinaia di persone. Le immagini del Globe che si esibisce di fronte a una platea di rifugiati nell’accampamento clandestino più malfamato d’Europa vengono riprese dalla stampa e in molti iniziano a conoscere il Good Chance. Alcuni dei nomi della scena teatrale e cinematografica come Jude Law, Jack Ellis, Vincent Mangado vi fanno tappa, altri come Cate Blanchett e Tom Stoppard lo supportano14. Il successivo crowfundig ha enorme successo e permette di organizzare un programma di attività quotidiane rivolte alle diverse componenti del campo. All’interno del Dome si tengono sessioni di canto, workshops d’improvvisazione, musica e disegno, si proiettano film e si apre un laboratorio di falegnameria. La versatilità dello spazio e la creatività degli artisti trasformano il Dome in uno spazio sociale, dove si tengono riunioni, dove si pratica l’arte e ci si diverte. Il tendone è sempre pieno: al mattino i bambini giocano e disegnano, nel pomeriggio si tengono i training per gli adulti, alla sera tutti assistono agli spettacoli e ai concerti offerti dai loro compagni, mentre di notte la cupola si trasforma in discoteca. Il Dome è un paese delle meraviglie, spazio materiale e metaforico, trasformabile a piacere. È il rifugio dell’immaginazione dei rifugiati. Qui i migranti possono riflettere e creare con i loro corpi, possono ripensare il proprio viaggio, ricordare i propri cari e riorganizzare la propria storia. «È un luogo dove potersi esprimere, riappropriarsi delle narrazioni personali e collettive, in qualche modo, ri-umanizzarsi […] far rinascere la capacità di scelta e d’espressione attraverso l’atto creatore»15.
Gli abitanti di Calais percepiscono il Dome come uno spazio di libertà in cui distendere il pensiero e creare attraverso l’immaginazione. Il Dome scoperchia una delle loro più profonde necessità: quella di poter riprendere a immaginare, a rielaborare la propria esperienza e la propria identità. Come riscontrano i più recenti rapporti medici sui migranti, la sofferenza mentale nei campi rifugiati è altissima, con frequenti sintomi di psicosi, sindrome post-traumatica da stress, disturbi psicologici con attacchi di panico, autolesionismo e tentativi di suicidio, anche tra i minorenni16. Molto di questo disagio è acuito dall’afasia sociale che caratterizza l’arrivo in Europa17. Con determinazione, i due Joe avvertono la possibilità di trasformare questa sofferenza in una forma di espressione: «L’arte è sempre stata veicolo di guarigione, anche se non siamo terapeuti»18. Intuiscono che, una volta trovato un canale in cui fluire, il bisogno di raccontare scaturisce in mille forme:
[I migranti] Ne hanno fatto il loro spazio. Il fatto di potersi esprimere attraverso il canto, la musica, la danza, la scrittura, la pittura, ma anche il fatto di partecipare come falegname, carpentiere, cuoco, condividendo dei momenti con gli altri o semplicemente comunicando, è qualcosa di profondamente liberatorio e d’indispensabile se consideriamo la situazione complessa che affrontano quotidianamente. Almeno per un momento, il teatro diventa il luogo privilegiato dove, nel mezzo del loro cammino, possono riposarsi e respirare un po’. Il luogo dove possono scambiarsi le pratiche artistiche, un luogo dove possono inventare e creare delle opere legate alla complessità della loro situazione, mostrando così la realtà della loro vita19.
L’esplosione comunicativa è multiforme e fantasiosa, la dinamica auto-rappresentativa può passare per la parola, l’azione, la musica, ma anche per la semplice partecipazione ad atti performativi creati da altri. Molti osservano in disparte, si riconoscono nelle storie rappresentate, ritrovano quello che hanno lasciato, quello che hanno sofferto e che non osano raccontare. Soprattutto le donne preferiscono osservare, manifestando una certa resistenza al training fisico e al lavoro collettivo, sia a causa di questioni culturali che di traumi originati da abusi e violenze vissute durante il viaggio. Ma anche la pratica dello spettatore può essere liberatoria, come da tempo ci insegnano le neuroscienze20, perché attiva un processo creativo che riscrive la drammaturgia interiore della propria esperienza. Anche questa è una forma di autorialità intima che viene cosi protetta e stimolata. Nel Dome, tutte le attività proposte hanno la funzione di incanalare e sviluppare ogni tensione espressiva. Come spiega Robertson: «Quello che succede nel Dome è il risultato di quello che i migranti ci portano. Qui i migranti lasciano il loro ruolo per essere finalmente riconosciuti per quello che sono individualmente. Noi cerchiamo semplicemente di dar loro un po’ di forza per farli uscire dall’invisibilità in cui sono caduti»21.
Il Dome è il luogo in cui potersi espandere: «Poter danzare di nuovo, significa essere di nuovo vivo. Insegnare alla gente a ballare, come facevo prima, ha molti effetti, soprattutto psicologici: dimentico tutti i problemi perché sono finalmente capace di fare qualcosa»22, racconta il giovane danzatore rifugiato Hassan Jozolee. La riapertura della dimensione creativa può avere effetti profondi, intervenendo anche sul destino professionale, come nel caso di Mohamed Sarrar, musicista sudanese che, dopo aver attraversato il Mediterraneo in condizioni drammatiche, nel Dome riprende a suonare e diventa rapidamente uno degli artisti centrali del Good Chance Theatre. Una volta giunto a Londra, si unisce al gruppo di artisti inglesi e compone le musiche per lo spettacolo The Jungle che andrà in scena al Young Vic Theatre nel dicembre del 2017. Per Sarrar: «Il Dome era finalmente un posto dove dimenticare le mie difficoltà e riprendere a sperare. È stata un’esperienza fondamentale per me. Ho potuto esprimermi e far emergere il mio talento. È a partire da questo momento che tutto è ricominciato»23.
Laboratorio di immaginari plurali
Il campo di Calais diventa un laboratorio performativo e sociale in cui artisti europei di diversa formazione e migranti provenienti da circa 25 nazioni sperimentano un territorio immaginativo comune. In questo contesto multiculturale e multilinguistico, il linguaggio performativo viene destrutturato e ricostruito, per estrarne l’essenza. Si sfidano e si testano all’infinito i processi improvvisativi, la sensibilità per lo spazio, l’ascolto del partner. Il training fisico di gruppo non è finalizzato all’ottenimento di tecniche o abilità, né alla strutturazione di una forma o un prodotto artistico, ma è esso stesso obiettivo. Siamo in un ambito integralmente laboratoriale dove il processo d’incontro e quello creativo coincidono. L’obiettivo è la creazione di una dinamica comunicativa in cui migranti e artisti possano addentrarsi con la consapevolezza di avere un interlocutore, perciò la pratica dell’improvvisazione è centrale, dal momento che tende a realizzare un rapporto immediato, riconnettendo corpi, idee e narrazioni differenti. Si mira a ricostruire quell’incontro che è venuto a mancare nella fase di arrivo in Europa. Restituendo quel benvenuto disertato, il rapporto tra newcomers ed europei diventa nuovamente paritario. Le dinamiche creative che si instaurano sono, infatti, orizzontali: il migrante non solo partecipa ma anche propone e conduce, trasmettendo il proprio repertorio performativo agli altri membri del gruppo. La varietà di narrazioni orali, musicali e corporali si allea così alle forme evocate dagli artisti europei e le modella trasformandole. La stessa nozione di rappresentazione si modifica, sconfinando spesso in una forma di partecipazione festiva.
Disseminando immaginari plurali e condivisi, l’esperienza del Dome supera un rischioso approccio post-coloniale. Benché si svolga in Europa, la sua pratica non passa per l’importazione estetica o la reinvenzione di modelli performativi extra-europei, ma attraverso una creazione collettiva che unisce il bagaglio teatrale degli artisti europei con le eterogenee tensioni espressive dei migranti.
Tale sperimentazione alle soglie di un’Europa multiculturale apporta un fondamentale contributo all’arricchimento dell’immaginario in un’epoca in cui l’appiattimento e l’omologazione dilagano, come già annunciava più di vent’anni fa Marc Augé nel suo saggio La Guerre des rêves24. La progressiva colonizzazione culturale attuata dall’Europa sugli altri orizzonti ha depauperato lo stesso immaginario europeo, uniformandolo e riducendone tutte le diversioni. Il percorso del Good Chance è, in questo senso, un esempio della resistenza immaginativa convocata da Augé in chiusura del suo saggio, dove chiama all’appello i nuovi “resistenti”, ovvero «tutti i creatori che, custodendo a qualunque costo la circolazione tra l’immaginario individuale, l’immaginario collettivo e la finzione, non rinunceranno mai a suscitare il miracolo dell’incontro. Tutti i sognatori, tanto abili a coltivare i propri fantasmi da trasformare in derisione l’immaginario preconfezionato degli illusionisti della finzione. Tutti quelli insomma che si preoccupano prima di costruire una modernità che di aggirarla»25.
Impermanenze
The Jungle è un luogo fluido e di transito, dove i continui arrivi e le partenze rendono impossibile la creazione di un gruppo di lavoro. Quando nel Dome si montano spettacoli, concerti e performance, la distribuzione dei ruoli è sempre provvisoria e può succedere che il giorno della prima l’attore principale non ci sia, perché è riuscito finalmente ad attraversare la frontiera. Il Good Chance Theatre, ha imparato a trasformare quest’instabilità in risorsa, inserendola nella propria poetica. Nel GCT tutto è in transito: i migranti, gli artisti, i curatori, le forme artistiche e, come vedremo, anche i luoghi. «L’instabilità è il nucleo di tutto quello che facciamo -dichiara Murphy- Bisogna saper tenerne conto. In questo è straordinario l’aiuto che ci viene dato quotidianamente. Quando si lavora sul corpo, per esempio, basta che cinque persone siano state presenti il giorno precedente ed eccole diventare i vostri migliori alleati, pronti a trasmettere agli altri quello che hanno appreso»26.
Lavorando sulla nozione d’instabilità, il GCT si addentra in uno dei nuclei essenziali del linguaggio performativo, già oggetto di approfondite riflessioni negli ultimi decenni (basti citare il saggio Unmarked: the Politics of Performance di Peggy Phelan)27. Nel caso del GCT, l’impermanenza ontologica alla performance è potenziata non da scelte artistico-estetiche, ma da circostanze sociali e politiche. E, d’altronde, la natura effimera delle arti sceniche ha più volte dimostrato di sapersi ben accordare a condizioni di estrema instabilità. La storia riporta numerosi esempi in cui il linguaggio performativo è divenuto il veicolo privilegiato d’espressione in contesti d’urgenza, incarnandone al meglio la realtà fluida e precaria e, all’occorrenza, sfuggendo censura e controllo politico. Né è testimonianza l’intensa attività performativa del ghetto di Terezin sotto il nazismo e, in particolare, la vicenda delle prove orchestrali clandestine del Requiem di Verdi dirette da Raphael Schachter28. I resoconti di Josef Bor29 ci restituiscono uno Schachter che, nonostante il continuo avvicendamento dei musicisti che vengono deportati uno dopo l’altro ad Auschwitz, non si arrende e, anzi, elabora un sistema di prove per far fronte alla scure che si abbatte ciclicamente sul gruppo. Il suo Requiem è riempito di quelle assenze.
Un altro esempio di fare scenico nutrito dalla precarietà esistenziale, è rappresentato dalla vivace contestazione artistico-performativa che attraversa i ghetti nel Sudafrica dell’apartheid, armata di teatro, musica, happening e poesia all’improvviso. Uno dei suoi più interessanti artisti, Athol Fugard, ha saputo delineare con grande lucidità le paradossali opportunità offerte dalle difficoltà politiche dell’epoca e dalla censura30: il fatto di dover lavorare clandestinamente in condizioni d’emergenza, con attori che venivano frequentemente arrestati dalla polizia, lo spinge a sviluppare una forma di teatro immediato e improvvisativo, che segnerà la storia del teatro africano e influenzerà profondamente la scena europea con la sua straordinaria novità31.
Riconoscendo l’impermanenza come natura intrinseca alla condizione umana, questi artisti hanno messo al centro della propria poetica l’istantaneità e l’instabilità proprie del linguaggio performativo, fornendo un inestimabile esempio di prassi artistica. Nel Dome di Calais, la transitorietà diventa la condizione vitale di ogni atto creativo e, in fondo, anche l’obiettivo finale: «Noi siamo l’unico teatro che spera che i nostri teatri non esistano a lungo, perché non ci siano più i luoghi dove installarli»32 afferma Murphy. L’esistenza stessa del teatro tende verso l’impermanenza assoluta: la scomparsa dopo l’istante. Come ogni performance.
Dai margini al cuore dell’Europa
Nel 2016, la Giungla viene interamente smantellata e i migranti vengono separati e inviati verso diverse destinazioni francesi, soprattutto a Parigi. Murphy e Robertson smontano la loro tenda e decidono di continuare altrove. Un riflesso quasi automatico li spinge ad attraversare la Manica, adempiendo l’obiettivo di migliaia di migranti. Una volta in Gran Bretagna, il Dome viene rimontato nel cuore di Londra, al Southbank Center in occasione del Festival Terrace, per una performance intitolata Encampment. Segnato da dipinti e graffiti sulle pareti, riempito di poesie e lettere dei migranti rimaste dopo lo smantellamento, il Dome viene esposto come testimonianza da condividere con la vasta platea londinese. Ad accogliere e accompagnare i visitatori c’è un gruppo di rifugiati scappati da Calais. Con quest’azione, il Good Chance propone una sorta di percorso inverso che porta i rifugiati dai margini al centro d’Europa. La loro memoria viene raccontata attraverso più linguaggi, che includono anche installazioni interattive, come The Machine to be another che invita lo spettatore a sperimentare virtualmente l’esperienza di alcuni migranti.33 Per dieci giorni nel Dome si susseguono performances, dibattiti e incontri con la cittadinanza sul tema dell’accoglienza. Vi partecipano circa diecimila persone tra spettatori e rifugiati che spesso si incontrano per la prima volta in uno stesso spazio. Sotto il cartello di entrata che annuncia “Welcome to the Jungle”, il Dome invita a nuove convivenze, attraverso una varietà di forme performative rivolte a diversi pubblici: «Crediamo che l’arte abbia un ruolo fondamentale nel creare incontri e riunire persone provenienti da esperienze diverse. È in assoluto la forma migliore per capire un’altra persona e la sua cultura. In epoca di movimenti e migrazioni, la responsabilità degli artisti aumenta»34.
Per il Good Chance, questo è il primo “festival delle presentazioni” (festival of introductions) in cui presentare ai cittadini europei i newcomers che hanno attraversato tragiche prove per raggiungere l’Europa. Secondo Roberston: «Questa volta si tratta di andare verso la gente e provocare una reazione. La maggior parte delle persone non hanno mai avvicinato un rifugiato. Tutti ne parlano continuamente, ovunque, ma nessuno li ha incontrati. Quello che vogliamo fare ora è rendere possibile questo incontro attraverso la creazione artistica»35.
Con lo stesso obiettivo, nel maggio del 2017, il Good Chance Theatre monta un piccolo Dome in pieno centro a Parigi nel parco del Théâtre de la Ville durante il Festival Chantiers d’Europe. Anche qui performance e incontri pubblici sono all’insegna di una riflessione comune sulla nuova Europa e il suo rapporto con i newcomers. Murphy spiega: «Sentiamo che è importante essere anche al Théâtre de la Ville: è molto facile per noi essere classificati come anarchici che amano rifugiati e migranti. Ma in realtà non siamo solo questo. Vogliamo aprire percorsi e avviare conversazioni con persone che non sono di quest’idea. Oggi c’è un problema di fondo: siamo sempre felici di parlare con gente che ha la nostra stessa opinione, ma resistiamo nell’esprimere un’opinione a persone che non la condividono»36.
Sempre a Parigi, nell’autunno 2018, il Good Chance Theatre è invitato al Musée de l’Histoire de l’Immigration, per una residenza artistica incentrata sul tema del “Benvenuto” e finalizzata alla creazione di una performance: «Cosa significa accogliere? Chi ne ha la responsabilità? Come funziona concretamente? La nostra speranza è che il Dome possa diventare uno spazio di incontri, servendosi dell’arte per rinforzare la relazione tra quelli che accolgono e quelli che sono accolti».37
Grazie a un finanziamento privato, il Dome rimarrà davanti al museo fino all’inizio dell’inverno, regalando ai visitatori pomeriggi di attività e, ogni Sabato, uno spettacolo che transita anche all’interno del museo. La presenza del GCT in un luogo istituzionale che racconta due secoli d’immigrazione, è fortemente significativa e ne inserisce l’opera vivente in una riflessione museale. La risposta del pubblico è appassionata: «Non avremmo mai riflettuto su questo, se non fossimo venuti al Hope Show. Ci si rende conto di quanto Parigi sia segregata e segregante, di come nei quartieri buoni non ci siano rifugiati, che sono nascosti altrove», scrive uno spettatore nel libro degli ospiti, dopo aver visto una performance nel Dome.38
Nella sua fase urbana, il Good Chance Theatre rivendica la necessità di inserirsi in quello che i fondatori chiamano “l’occhio del ciclone”, ovvero il cuore d’Europa. La loro presenza ai festival e nei luoghi dedicati alla produzione culturale, mira a interrogare la società civile e il mondo artistico, stimolando il dibattito sul ruolo dell’artista europeo di fronte alla crisi dei rifugiati, e sviscerando i rischi di un approccio post-coloniale.
La riflessione sulla responsabilità dell’artista attraversa tutta la fase di ritorno, in varie forme, anche mediante una produzione artistica rivolta al circuito teatrale. The Jungle è uno spettacolo prodotto dal National Theatre e Young Vic e scritto da Murphy e Robertson, che racconta l’esperienza nel campo di Calais. Interpretato da una ventina di attori e rifugiati, nello spazio di una scenografia immersiva che ricostruisce un ristorante afgano, The Jungle evoca lo spettro del post-colonialismo in agguato dietro molte azione caritatevoli di bendisposti europei. Allo spettatore è rivolta una domanda: «Cosa fare di fronte a Calais? Si può aiutare? E come?» Vincitore del South Bank Sky Arts Award for Theatre nel 2018 e nominato dal West End Debut Award, la pièce, diretta da Stephen Daldry e Justin Martin, è un lavoro collettivo di drammaturghi e alcuni rifugiati di Calais, tra cui il compositore e percussionista Mohamed Sarrar.
Nello stesso periodo in cui lavora a questa produzione, il Good Chance riunisce un collettivo di artisti rifugiati, alcuni provenienti da Calais, e li supporta nei loro progetti. The Good Chance Ensemble è in continua espansione e comprende attori, musicisti e artisti visivi. Per alcuni di loro, l’incontro con il GCT ha portato fortuna, come per l’iraniano Majid Adin, che ha disegnato il video d’animazione Rocket Man di Elton John.39
Il Dome a Parigi (24 marzo 2018). Fotografo: Rosaria Ruffini
Nomadi tra i migranti: Parigi
Anche dall’“occhio del ciclone”, il lavoro sul campo continua. Murphy e Robertson visitano i campi profughi di Atene e Istanbul e, nel gennaio del 2017, s’installano nella periferia parigina di Aubervilliers, dove centinaia di migranti evacuati da Calais dormono per strada. «Molte delle persone che conoscevamo sono andate a Parigi, dove continuano ad arrivare sempre più rifugiati. Per questo abbiamo deciso di installarci lì»40, spiega Murphy. Dopo sei settimane di lavoro, però, l’accampamento di Aubervilliers viene smantellato dalle autorità francesi e il Good Chance è costretto a spostarsi. La politica francese fronteggia con fatica il riversarsi dei migranti di Calais nella capitale e, pur continuando gli sgomberi, inizia a elaborare delle soluzioni alternative per gli sfollati inviandoli, in collaborazione con le associazioni caritatevoli, presso i centri di accoglienza da poco concepiti (Centre d’accueil et d’orientation CAO).
Per il Good Chance si apre una nuova fase in cui il teatro diventa a tutti gli effetti nomade e si sposta nei Centri in cui transitano i migranti appena giunti in Europa. Dopo lo smantellamento di Aubervilliers, il Dome si installa a Porte de La Chapelle a fianco della struttura d’accoglienza temporanea gestita dall’associazione Emmaüs41. Quando questa viene chiusa, nell’estate del 2018, il Good Chance Theatre si sposta al Centre d’hébergement d’urgence Jean Quarré dove rimane fino a fine estate, per trasferirsi, nell’autunno del 2018, alla Porte Dorée. La produttrice esecutiva Claire Béjanin che segue la gestione del gruppo francese, spiega «Abbiamo intenzione di svilupparci. L’idea è di diventare un teatro transitorio che ogni tre mesi s’installa in un quartiere diverso di Parigi42».
Questa linea nomadica accentua ancor di più la poetica di transizione che distingue il GCT: la sua presenza diventa mobile, temporanea e moltiplicabile, incarnando al meglio l’essenza instabile del linguaggio performativo. La nozione di transizione che oggi attraversa le arti della scena e nutre alcuni dei più interessanti progetti che riuniscono artisti, migranti e società civile (come ad esempio Atlas of Transitions)43 trova nel GCT una sintesi estetica e processuale. Il nomadismo trasversale delle fonti, dei pubblici, degli spazi, degli attori sociali, è speculare alla condizione del rifugiato a cui si rivolge. Questa instabilità programmatica richiede però una ferma struttura organizzativa44. Perciò le attività di Parigi vengono coordinate dalla produttrice esecutiva e ogni permanenza in un Centro è curata da uno o più professionisti che elaborano un programma, in collaborazione con gli artisti che lo realizzeranno. I curatori che battezzano il nuovo corso, nella primavera del 2018, sono Jack Ellis, Vincent Mangado e Elisa Giovannetti. Le loro scelte curatoriali sono all’insegna della sperimentazione con l’obiettivo di creare una comunicazione immediata e ludica con i migranti appena giunti nei Centri. Mentre Vincent Delgado coinvolge alcuni attori del Theatre du Soleil, l’attore britannico Jack Ellis elabora un programma di training fisico condotto con la compagnia Llave Maestra e, parallelamente, organizza un laboratorio sartoriale in collaborazione con l’International Fashion Academy Paris, indirizzato a realizzare una sfilata-performance: The Hope Walk vedrà sfilare i modelli realizzati dai migranti a partire dai vestiti donati dalle associazioni caritatevoli, decostruiti e ricreati con gli studenti di moda dell’accademia.
Coinvolgendo una grande varietà di artisti internazionali e di associazioni, i curatori mirano ad allargare il più possibile il network intorno ai rifugiati. Grazie a una di queste collaborazioni, viene organizzato anche un Boat-show, una performance galleggiante sulla Senna, per stigmatizzare l’assenza delle istituzioni di fronte al continuo aumento di migranti accampati sulle rive della Senna.
Soglie: dove finisce l’Europa
L’odierna direzione del Good Chance Theatre guarda ai Centri di prima accoglienza, affrontando uno dei nodi più caldi della politica europea, intorno al quale si gioca una battaglia che mina i valori e le radici dell’Unione. La mancata attuazione del Sistema europeo comune di asilo (CEAS) e il diffondersi di politiche nazionaliste, hanno trasformato questi luoghi nel fulcro di un acceso dibattito focalizzato sulla loro gestione, il loro status e la loro ubicazione. Né dentro, né fuori ai confini, i Centri sono zone liminali senza regole e standard di gestione. I loro acronimi cambiano ciclicamente (hotspot, CIE, CPR, CAS, CARA) quasi a nascondere e a mistificare una realtà poco lusinghiera. Invisibili e spesso inaccessibili ai cittadini europei, sono riempiti a dismisura di persone che sognano l’Europa. Non c’è spazio antropizzato che oggi ci interroghi più di questi territori iconici della modernità. Eppure di questi luoghi non abbiamo immagini, né narrazioni: qui si cela l’altra faccia dell’Europa. La sfida del GCT di operare in queste soglie non solo geografiche, ma anche simboliche, va a toccare il nervo scoperto del sogno europeo, accendendo i riflettori su una realtà negletta e poco considerata dal mondo culturale e artistico.
La pratica pioniera del teatro nei centri di prima accoglienza presenta caratteristiche specifiche, dal momento che è rivolta a migranti in transito che hanno appena attraversato le frontiere e sono destinati a ripartire per altre destinazioni. Nei Centri di prima accoglienza i newcomers si fermano il tempo necessario per l’identificazione e l’avvio della pratica burocratica di richiesta d’asilo,45 e in nessun caso sanno quando (e dove) se ne andranno. Questa condizione di spaesamento è aumentata dal fatto che non esistono spazi e tempi di socialità: i migranti passano le loro giornate senza poter far nulla, attendendo il momento del pranzo e quello del riposo. Escluso qualche corso di lingua offerto da associazioni caritatevoli o le partite di calcio nel cortile, i centri di accoglienza sono lo spazio dell’inerzia. Tale condizione sospesa aumenta in modo significativo il presentarsi di problemi psichici e la “ritraumatizzazione secondaria” è frequentissima: le tragedie vissute nel proprio paese e agli abusi subiti durante il viaggio, si sommano all’allontanamento dai proprio cari, dalle propria lingua, dalla proprie familiarità. Per chi arriva segnato da sofferenze, il destino è quello di ammalarsi ancora di più in questi spazi dell’attesa dove il vuoto e la paura di essere rimpatriati, diventano un pericoloso declivio. Uno dei migranti che ha frequentato il GCT racconta: «La nostra situazione non è facile. Se non sei regolarizzato, hai un sacco di problemi che ti girano continuamente in testa e, se non hai persone con cui parlare, succedono molte cose nella tua testa e diventi matto velocemente»46.
In queste condizioni, le attività del Good Chance rappresentano una pratica culturale d’urgenza volta a creare comunicazione tra persone che parlano lingue diverse e soffrono spesso di disagi psichici. Le testimonianze dei migranti che prendono parte alle attività rivelano grande apprezzamento: «La prima volta che sono venuto a Porte de La Chapelle ho visto gente ballare. Sono tornato il giorno dopo e ho ballato con loro. Ero felice. Poi sono tornato tutti giorni, e non ho più fatto quegli incubi che facevo ogni notte. Ho potuto dimenticare le cose folli che ho vissuto nel Sudan, da dove vengo»47. Il rifugiato afgano Malang racconta: «Avevo un gruppo di danza, ma i talebani l’hanno vietato. Qui a teatro sono felice, mi dà l’impressione di avere un lavoro, mentre il resto del giorno non posso fare nulla»48. Un altro giovane migrante afferma: «Prima quando mi svegliavo alla mattina, mi lavavo, mangiavo e non facevo nulla tutto il giorno. Ora va bene, partecipo, parlo con le persone e, anche se non parliamo francese, riusciamo comunque a comunicare»49.
Il primo obiettivo delle attività del Good Chance Theater nei Centri è quello di instaurare una comunicazione. Il training fisico collettivo è il veicolo. Il dialogo si instaura a livello corporale e performativo, in un continuo processo improvvisativo che richiede vigilanza e ascolto. Si attua naturalmente un progressivo raffinamento indirizzato verso un linguaggio immediato e comprensibile aldilà delle numerose provenienze linguistiche dei migranti. È un percorso esplorativo perché non c’è il tempo per l’elaborazione e tutto è in continuo divenire.
Si realizzano con semplicità le dinamiche comunitarie a lungo ricercate nei laboratori teatrali del secondo Novecento dove si sperimentavano misurate alchimie interculturali50. Le questioni che assillavano Peter Brook durante i primi anni del suo Centre International de Recherche Théâtrale51, intorno alla definizione di una micro-società multiculturale capace di comunicare in maniera diretta, trovano nel GCT una veloce soluzione. Non per principio, ma per necessità. Anche l’utopia del linguaggio performativo universale che nei primi anni del 1970 aveva attraversato gran parte della ricerca teatrale, dando luce a vari esiti (ricordiamo il sofisticato Orghast al festival di Shiraz)52, qui si attua spontaneamente. L’improvvisazione non-verbale e l’uso di suoni o di singole parole ripetute in diverse lingue, creano le condizioni per un dialogo che oltre ad superare la comprensione verbale, oltrepassa anche le convenzioni e i codici culturali.
Per questo i Domes non sono solo territorio d’innovazione sociale, ma anche fucina artistica dove diversi gradi del fare teatro si incrociano. E mentre gli artisti più inesperti si formano sul campo, i professionisti mettono alla prova il loro bagaglio in un contesto di estrema difficoltà che non permette tentennamenti o enigmatiche interpretazioni, ma impone una ricerca diretta sull’ascolto, la vigilanza, l’essenzialità. «Lo stato di presenza e di apertura all’altro fa parte della forza del lavoro artistico -spiega Claire Béjanin- E nel Dome questo si svolge con grande semplicità53». Molti degli esercizi incentrati sul rapporto col partner, utilizzati spesso nelle scuole di teatro, nel Dome si caricano di un’impellenza espressiva. Per i migranti del GCT, l’atto performativo rappresenta il solo squarcio possibile verso la libertà di rappresentarsi. Come per il campo di Calais, anche qui l’orizzontalità del linguaggio improvvisativo compensa la difficoltà che vede il migrante misurarsi con nuove lingue, nuove normative, nuove abitudini. Mentre il mediatore, il medico, il funzionario, lo psicologo impongono -loro malgrado- una dinamica di ruoli in cui il migrante non è mai attore, l’attività performativa invece offre uno spazio privato in cui ognuno può entrare come e quanto crede. Gli attori Edurne Rankin e Álvaro Morales, che nella primavera del 2018 hanno guidato il training di movimento affermano «L’obiettivo non è quello di imporre quello che sappiamo fare, ma è invece di imparare da loro. Ci si incontra per attimi, si balla insieme, ci si tiene per mano, si stabiliscono immediatamente dei legami tra le persone. E nascono dei forti momenti artistici»54.
Neppure la forma è stabilita, ma si sperimentano più mezzi che includono anche workshop video e fotografici, in cui i migranti possano raccontare il nuovo mondo attraverso lo sguardo.55 Gli eterogeni risultati vengono presentati ogni sabato negli Hope Shows rivolti al pubblico locale.
L’entrata al Dome poco prima di uno Hope Show (24 marzo 2018). Fotografo: Rosaria Ruffini
Hope Show: paradigmi per un nuovo mondo
Ogni sabato le porte del Dome si aprono per il pubblico cittadino, offrendo una performance gratuita. L’Hope show non è una creazione artistica, ma un dispositivo d’incontro che si svolge con persone sempre diverse. Non sono solo gli spettatori a mutare, ma anche i migranti che vengono trasferiti, rimpatriati o inviati alla frontiera. Il loro continuo avvicendarsi impone un’apertura e un’elasticità performativa che includa continuamente la variazione. La sola pratica percorribile è quella dell’istante. L’Hope Show è una sorta di canovaccio che si ripete poche ore prima dell’entrata del pubblico, sulla base del training e degli esercizi praticati durante la settimana. Si attribuiscono i ruoli, si monta l’azione e si crea una composizione. In sostanza si creano le condizioni di rappresentazione. Gli spettatori accedono nei Centri di prima accoglienza e vengono accolti dai rifugiati e dai volontari che li invitano a visitare il Dome e a bere una tazza di tè. Nell’ottica comunitaria del Good Chance, il pre-spettacolo è importante quanto la performance per introdurre due mondi spesso divisi: quello cittadino e quello dei rifugiati. L’arrivo del pubblico è seguito da vicino da tutti i membri del gruppo che si presentano e incoraggiano lo scambio. In un’atmosfera del tutto informale, ci si accomoda stringendosi sulle piccole panche o sedendosi per terra, in mezzo a rifugiati, bambini, ragazze, anziani, artisti e fotografi.
In scena si alternano improvvisazioni, poesie, canti. La presa di parola è centrale. Fogli stropicciati escono dalle tasche, con brevi testi che vengono letti o declamati in varie lingue, cantati, interrotti, ripresi dopo lunghi silenzi. Gli Hope shows sono costellati di appelli in francese, inglese, arabo e pashtun rivolti al pubblico, con grandi ringraziamenti. Nonostante la babele di lingue, non può sfuggire il costante ricordo dei proprio cari. Madri, figli, cibi, profumi, ritornano ovunque; «Ti amo e voglio essere con te, con te, solo con te. Passare la mia vita con te e prendermi cura della mia amata figlia», canta un migrante nel Dome di Porte de la Chapelle.56 A queste nostalgie, alcuni aggiungono rapidi e spediti accenni di un dolore difficile da trasformare in verbo: il ricordo dei cari scomparsi durante il cammino. Tra le pieghe della parola, aleggiano i morti insepolti che a migliaia abitano i fondali del Mediterraneo57. Di queste 35.000 persone annegate nel tentativo di raggiungere le coste d’Europa, nel Dome si coglie a volte una parvenza, una traccia rivelata da chi riesce a parlare. La scena diventa spazio di domande, paure, gratitudine. Reciproche. Perché se l’Hope show è per i rifugiati una finestra sul nuovo mondo, allo stesso modo, è per il pubblico europeo, una finestra sulla realtà ignota dei migranti. Come per tutte le azioni del Good Chance, l’Hope show cerca di ristabilire un incontro tra chi sbarca e chi accoglie, tra il rifugiato e il territorio, un rapporto che è venuto progressivamente a mancare a causa di una gestione dell’accoglienza interamente normalizzata. «Vogliamo creare degli incontri», afferma Robertson, perché sospetti e pregiudizi si dissolvono quando l’ombra dell’Altro prende sembianze umane. L’Hope Show si chiude infatti con musica e danze, trasformandosi in una celebrazione festiva che unisce spettatori, artisti e rifugiati.
Attraverso gli Hope shows, il Good Chance Theatre dissemina pratiche di convivenza e moltiplica la creazione di gruppi fluidi ed eterogenei che, per composizione, competenze, origini, lingua, età e provenienza, sembrano rappresentare un’ipotetica sezione della prossima società europea. I suoi teatri nomadi sono uno spazio di accoglienza dove si praticano linguaggi funzionali alle necessità multiculturali del contemporaneo. Per il GCT «Costruire un teatro è costruire un nuovo mondo: un nuovo spazio e nuovi modi di creare. Mentre i legami europei si ridiscutono e la Brexit allontana la Gran Bretagna dall’Europa, il Good Chance Theatre vuole costruire nuovi legami culturali, per immaginare altri mondi più uniti»58.
Di fronte allo stallo in cui si è arenata oggi la politica comunitaria, il teatro risponde con una reazione diffusa. Non solo il Good Chance, ma numerose altre esperienze sorgono alle porte d’Europa, dove migliaia di persone sono confinate in condizioni drammatiche. Le arti performative ci indicano, abitandoli, i nuovi luoghi della contemporaneità, e ci inviano segnali, immagini e narrazioni dal confine estremo della nostra civiltà. Dal suo limite.
1. L’espressione “indurimento dell’identità” è utilizzata da Jean-Loup Amselle in Logiques métisses. Anthropologie de l’identité en Afrique et ailleurs (Parigi: Payot Rivage, 1990).
2. Cfr. Michael Balfour (a cura di), Refugee Performance: Practical Encounters (Bristol: Intellect, 2013); Anita Marschall, “What can theatre do about the refugee crisis? Enacting commitment and navigating complicity in performative interventions”, Research in Drama Education: The Journal of Applied Theatre and Performance, n.23 (2018): 148–166.
3. Cfr. Stephen E. Wilmer, Performing Statelessness in Europe (Basingstoke: Palgrave Macmillan, 2018); Emma Cox, Performing Noncitizenship (New York: Anthem Press, 2015); Alison Jeffers, Theatre and Crisis: Performing Global Identities (Basingstoke: Palgrave Macmillan, 2012).
4. Cfr. Azadeh Sharifi, “Multilingualism and Post-migrant Theatre in Germany”, Modern Drama 61, n.3 (2018): 328–351; Erika Fischer-Lichte, Torsten Jost, e Saskya Iris Jain (a cura di), The Politics of Interweaving Performance Cultures. Beyond Postcolonialism (Londra: Routledge, 2014).
5. Un’eccezione è rappresentata dall’Architettura, disciplina che sembra aver sviluppato un certo interesse per il tema: cfr. Itohan Osayimwese, “Architecture, Migration, and Spaces of Exception in Europe”, Thresholds Journal 41 (2017); Bechir Kenzari (a cura di), Architecture and Violence (New York: Actar, 2011).
6. Cfr. Michel Agier, Borderlands, Towards an Anthropology of the Cosmopolitan Condition (Cambridge: Polity, 2016); La giungla di Calais (Verona: Ombrecorte, 2018); Managing the Undesirables: Refugee Camps and Humanitarian Government (Cambridge: Polity, 2011).
7. Zygmunt Bauman, Vite di scarto (Bari: Laterza 2005).
8. William Shakespeare, La Tempesta, atto V, scena I.
9. Joe Murphy in Kim Hullot-Guiot, “A La Chapelle les migrants passent aux actes”, Libération, 15 marzo 2018.
10. “The good chance” deriva il suo nome dalla “buona occasione” attesa dai migranti a Calais.
11. Joe Murphy intervistato da Hugues Le Tanneur in https://www.goodchance.org.uk/hugues-le-tanneur-on-good-chance-paris/.
12. Joe Robertson in Kim Hullot-Guiot, “A la Chapelle, les migrants passent aux actes”, cit.
13. Joe Robertson intervistato da Hugues Le Tanneur, cit.
14. Cfr. Tom Stoppard, “The Calais Jungle is a dump but in it I found music, poetry and humanity”, The Sunday Times, 28 febbraio 2016.
15. Louise Bernard in “The Good Chance Theatre: faire renaître leur capacité de choix et d’expression”, Cultures en dialogue, 8 agosto 2018, http://www.culturesendialogue.fr/good-chance-theatre-3-questions/.
16. Sul tema si vedano in particolare le ricerche condotte da Thomas Elbert, presso l’Università di Costanza, che rivelano che circa la metà dei rifugiati giunti in Germania soffre di disturbi mentali. Elbert ha indagato l’impatto di un approccio terapeutico narrativo per curare disturbi post-traumatici: Thomas Elbert, Maggie Schauer, Frank Neuner, Terapia dell’esposizione narrativa. Un trattamento a breve termine per i disturbi da stress traumatico (Fioriti Editore, 2014). La necessità di trovare approcci innovativi è stato evidenziato anche dal Convegno organizzato dall’ INMP a Roma “Salute Mentale dei Migranti: tendenze a livello Europeo e approccio transculturale”, il 7 giugno 2017.
17. Si tratta di un’emergenza sanitaria che non viene affrontata, né presa in carico dall’UE. Gli scarsi fondi destinati a finanziare progetti d’assistenza psicologica ai migranti (soprattutto dall’AMIF Asylum, Migration and Integration Fund) sono spesso utilizzati per far fronte ad altre urgenze.
18. Joe Robertson in “A La Chapelle”, cit.
19. John Murphy intervistato da Hugues Le Tanneur cit.
20. Giacomo Rizzolatti, coordinatore del gruppo di ricercatori dell’Università di Parma che scoprì l’attività del neurone specchio, parla di “risonanza motoria” alla rappresentazione cui assistiamo. Giacomo Rizzolatti, Corrado Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio (Milano: Ed Cortina, 2005).
21. Joe Robertson, intervistato da Hugues Le Tanneur, cit.
22. Hassan Jozolee in Giverny Masso, “Beyond the Jungle: Good Chance refugee theatre pops up in Paris”, The Stage, 11 maggio 2017, https://www.thestage.co.uk/features/2017/beyond-jungle-good-chance-refugee-theatre-pops-paris/.
23. Mohamed Sarrar, intervistato da Hugues Le Tanneur, cit.
24. Marc Augé, La Guerre des rêves. Exercices d’ethno-fiction (Parigi: Seuil, 1997).
25. Augé, 180 [T.d.A.].
26. Joe Murphy intervistato da Hugues Le Tanneur, cit.
27. Peggy Phelan, Unmarked: the Politics of Performance (New York: Routledge, 1993) e Richard Schechner. Performance Studies: An Introduction (New York: Routledge, 2006).
28. Cfr. Leonardo Distaso, Ruggero Taradel, Musica per l’abisso. La via di Terezin. Un’indagine storica ed estetica 1933-1945 (Milano: Mimesis, 2014).
29. Josef Bor, Il requiem di Terezin (Firenze: Passigli, 2014).
30. Cfr. Athol Fugard, Notebooks 1960-1977 (New York: Theatre communication, 1984).
31. Sulle influenze del teatro di Athol Fugard e Barney Simon in Europa cfr. Rosaria Ruffini, “Peter Brook e il Sudafrica”, Ariel, Quadrimestrale di drammaturgia dell’Istituto di Studi Pirandelliani, n.1 (aprile 2000): 115–132.
32. Joe Murphy, intervistato da Kriston Capps in “What a Theater Means to a Refugee Camp”, Citylab, 24 ottobre 2016, https://www.citylab.com/design/2016/10/what-a-theater-means-for-a-refugee-camp/505175/.
33. L’installazione è stata realizzata in collaborazione con BeAnotherLab, alla Somerset House.
34. Sito del Good Chance Theatre: https://www.goodchance.org.uk/.
35. Joe Robertson intervistato da Hugues Le Tanneur, cit.
36. Joe Murphy intervistato da Léa Coffineau, “Beyond the Jungle: Good Chance refugee theatre pops up in Paris”, IoGazzette, 22 aprile 2017.
37. Sito del Good Chance Theatre: https://www.goodchance.org.uk/paris-autumn-2018.
38. Testimonianza raccolta nel libro degli ospiti del Good Chance Theatre Paris.
39. Alcuni dei migranti di Calais hanno fondato dei gruppi autonomi che gravitano intorno al GCT, altri hanno recentemente costituito a Parigi la compagnia “La Troupe”, diretta da Alexandre Moisescot.
40. Joe Robertson intervistato da Hugues Le Tanneur, cit.
41. Con le sue sessanta strutture in area parigina, Emmaüs Solidarité accoglie 3800 senzatetto al giorno.
42. Dal sito del Good Chance Theatre: https://www.goodchance.org.uk/.
43. Atlas of Transitions è un progetto internazionale che coinvolge teatri, centri d’arte contemporanea, associazioni e università di sette paesi europei per creare pratiche partecipative tra cittadini e newcomers. http://www.atlasoftransitions.eu/
44. Nel 2017 le attività di Parigi sono state sostenuta da privati, dalla fondazione Jan Michalski, dal Théâtre de la Ville e dal British Council. Per l’impianto luci, suono e per la scena, hanno contribuito : La Comédie Française, La Commune Théâtre national dramatique, Théâtre de la Ville, Théâtre des Bouffes du Nord, Théâtre du Soleil.
45. La durata della permanenza dovrebbe essere di 20-30 giorni, ma a causa dei numerosi problemi che riguardano le politiche di accoglienza europee, i tempi si allungano notevolmente. Nel CARA di Mineo, il Centro d’Accoglienza Richiedenti Asilo più grande d’Europa, alcuni migranti attendono da più di un anno.
46. Intervista tratta dal video #WelcomeAll, https://www.youtube.com/watch?time_continue=2&v=V9HuaoEQyJ8, Parigi, 2018.
47. Intervista tratta dal video #WelcomeAll.
48. In Kim Hullot-Guiot, “A la Chapelle les migrants passent aux actes”, cit.
49. Intervista tratta dal video #WelcomeAll.
50. In particolare il Centre International de Recherche Théâtrale fondato da Peter Brook nel 1971, basato sull’incontro multiculturale. L’epoca è attraversata da molteplici esperienze tese alla ricerca di una realizzazione comunitaria interculturale. Si ricordino anche, con percorsi diversi, le ricerche di Ariane Mnouchkine e di Eugenio Barba. Sul tema vedi M.C. Autant-Mathieu (a cura di), Créer, ensemble. Points de vue sur les communautés artistiques (fin du XIX°-XX° siècles) (Montpellier: L’entretemps, 2013).
51. Cfr. Peter Brook, Punto in movimento, 1946– 1987 (Milano: Ubulibri, 1988).
52. Il progetto Orghast mirava alla creazione di un linguaggio comprensibile a tutti. Il testo dello spettacolo (che durava una notte intera) era composto da parti in greco antico, in avesta (antica lingua liturgica persiana) e nella lingua a matrice onomatopeica creata dal poeta Ted Hughes. Cfr. A.C. Smith, Il Teatro come invenzione «Orghast» di Peter Brook e Ted Hughes (Milano: Feltrinelli, 1974).
53. Claire Béjanin in Kim Hullot-Guiot, “A la Chapelle”, cit.
54. Ibid.
55. Il Good Chance Theatre lavora anche alla registrazione della memoria performativa, insieme ai migranti. Così nascono le mostre fotografiche che documentano le attività nei Domes e, recentemente, i documentari girati dagli stessi migranti.
56. Poesia scritta da un migrante nel Dome di Porte de La Chapelle, e pubblicata dalla pagina Facebook del Good Chance Theatre: https://www.facebook.com/GoodChanceTheatre/.
57. L’Europa non ha mai legiferato sul tema dell’identificazione dei morti nel Mediterraneo, creando un vuoto in materia giuridica che, a causa della mancata identificazione, priva i congiunti di tutte le necessarie tutele giuridiche in tema di eredità e diritti. Unico tra i paesi d’Europa, l’Italia ha costituto un commissario straordinario per le persone scomparse, con competenza sui cadaveri sconosciuti. L’impegno vede la partecipazione di diverse istituzioni: la Guardia costiera, la Croce rossa e diverse università italiane, con i loro laboratori di antropologia e odontologia forense. Nel 2018 è partito anche un progetto dell’organizzazione International Commission on Missing Persons (ICMP).
58. Programma in http://www.altermachine.fr/good-chance-theatre-paris.
Bibliography
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Siti
https://www.goodchance.org.uk/
https://www.facebook.com/GoodChanceTheatre/
Video
#WelcomeAll, Paris 2018 https://www.youtube.com/watch?time_continue=2&v=V9HuaoEQyJ8
Bringing theatre to the Calais ‘jungle’ https://www.bbc.com/news/av/entertainment-arts-35184836/bringing-theatre-to-the-calais-jungle
Author
Rosaria Ruffini è ricercatrice in Performance Studies all’Università IUAV di Venezia. Ha conseguito un dottorato all’Université de Paris 3 Sorbonne Nouvelle, con una tesi intitolata «Les Afriques de Peter Brook» diretta dal Prof. Georges Banu. Attualmente insegna teoria e pratica della scena presso varie istituzioni internazionali: Università IUAV di Venezia, Università Paris3 Sorbonne Nouvelle, Université Paris 8 Saint-Denis, École des Mines de Paris e École nationale supérieure de techniques avancées di Saclay.
Rosaria Ruffini, PhD, is a researcher in Performance Studies at the University IUAV in Venice. She has obtained a PhD in Theatre Studies at the University Paris 3 Sorbonne Nouvelle, with a thesis investigating the relationships between African theatre and the theatrical production of the British director Peter Brook. She teaches Theory and Practice of Theatre in several international institutions: University IUAV in Venice, University Sorbonne Nouvelle Paris3, University Saint-Denis Paris 8, École des Mines de Paris and École nationale supérieure de techniques avancées of Saclay.